"[...] eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi,
non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun
esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli
altri.
Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi,
quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di
situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei
platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di
rinchiuderli, s'isolava, traboccava.
Di queste relazioni (che m'ostinavo a
mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle
quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente
sulle cose.
Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra.
Di
troppo la Velleda… Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di
cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che
altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche
adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi
come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di
queste esistenze superflue.
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo.
Di
troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in
fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo
nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate,
nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo
per l'eternità".
Jean-Paul Sartre